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Star Wars e la sindrome dell’abbandono

Star Wars e la sindrome dell’abbandono

L’imminente uscita dell’ultimo capitolo della saga più amata di tutti i tempi rende inevitabilmente irrequieto il fandom tutto: chi più chi meno, l’intero popolo di SW si dibatte nel dubbio, nell’ansia, nell’hype e nella curiosità estrema verso quello che più di una volta è stato dichiarato essere il film che rivoluzionerà la nostra concezione della saga, andando addirittura a sovvertirne le fondamenta.

Con il conto alla rovescia ormai agli sgoccioli e queste premesse, non è strano vedere molti fan reagire all’ansia nei modi più disparati e bizzarri: c’è chi esorcizza i trailer, chi non vede né sente nulla, chi affetta indifferenza pur rodendosi dentro. Se c’è una cosa che la cara e compianta Carrie Fisher ha azzeccato nella sua lunga carriera è stata quella commovente frase che pronuncia nel video dedicato a Gli ultimi Jedi, presumibilmente poco prima di lasciare tutti noi:

Parla di famiglia, per questo è così potente.

E il fandom di Star Wars è questo, nulla più e nulla meno, una famiglia enormemente allargata: persone accomunate da una stessa passione ma internamente divise e frammentate in una miriade di correnti e sotto-correnti. Questo perché la saga, espandendosi su un arco narrativo di ben quarant’anni, ha investito almeno due, se non tre generazioni: coloro che videro la nascita della leggenda al cinema, nel ’77, quelli che vent’anni dopo videro la Trilogia tornare sui grandi schermi nell’edizione rimasterizzata, e successivamente fecero la conoscenza della Trilogia Prequel, ed infine coloro che hanno approcciato Star Wars partendo da questa nuova trilogia, uscita ben 38 anni dopo il primo film.

Questo vasto lasso di tempo coperto dalla saga e il fatto che essa è giunta in momenti diversi, tempi diversi, con modalità diverse a persone diverse ha fatto in modo che ogni fan creasse ed elaborasse il proprio Star Wars, la sua personale impronta nella saga, cosi come una conchiglia fossile imprime la propria forma in uno strato di roccia, che nel corso dei millenni si trasforma in marmo. Questa pluralità di punti di vista sulla saga è alla base della frammentarietà (e del cicaleccio) del fandom, fandom che per forza di cose non può essere coerente, perchè di fatto lo Star Wars perfetto per un fan di Star Wars paradossalmente non esiste, dal momento che ogni singolo fan ha la sua personale composizione per il film perfetto, come la ricetta per i tortellini che in Emilia cambia non di città in città, ma di casa in casa.

Le cose poi in Italia si complicano ulteriormente: il nostro paese, stolidamente refrattario alla fantascienza anglofona, ha impiegato decenni a mettersi al pari con gli altri fandom mondiali; come se non bastasse noi gente italica, litigiosa e super-campanilista per natura, difendiamo con le unghie e con i denti il nostro personale filtro-Star Wars, riuscendo raramente ad essere obiettivi in quello che affermiamo. Insomma, è un bel casino, per farla semplice. Ma una delle tendenze che più di qualunque altra ha attecchito con l’uscita della nuova trilogia è un’altra: lo scontro generazionale.

Quasi sempre infatti in molti tendono a dimenticarsi che questi film che Disney e Lucasfilm stanno producendo (stendiamo un velo pietoso su chi ancora sostiene che sia la Disney a muovere i fili di tutto come una crudele eminenza grigia, perché siamo ai livelli del complottismo e delle scie chimiche) in questi anni, cioè in questo primo frenetico ventennio del XXI secolo, con un immenso dispendio di soldi, non sono fatti per i fan di vecchia data, mi spiace doverli deludere.

Chi crede a ciò è molto ingenuo o è affetto da una malattia che descriverò tra poco, ma è abbastanza evidente: questi nuovi film sono creati per una nuova generazione di fan, coloro destinati ad ereditare il testimone che è stato nostro per quarant’anni e portarlo avanti per altri quaranta. Questa tendenza è così lapalissiana da essere stata inserita addirittura nella trama dei film: nuovi eroi che prendono il posto di vecchie leggende.

La verità è una sola: Star Wars non è più nostro. E prima ci faremo l’abitudine meglio sarà. Con questo non voglio dire naturalmente che ce lo porteranno via, ma che non siamo più noi i destinatari del messaggio contenuto nella saga. Ne siamo stati i prescelti, gli eletti, poi i custodi, poi i sapienti. Ora la saga stessa ci fa sapere che è tempio per una nuova generazione di prescelti, che hanno il compito che abbiamo avuto noi, mantenendo la saga viva per tutto questo tempo. Se ci pensate è una cosa molto poetica e cavalleresca, che non mi intristisce minimamente.

Quello che mi intristisce sul serio è vedere invece quanti fan (spesso di una certa età) sono attaccati alla saga col mastice: a partire da coloro che videro i film al cinema (che a volte si comportano come se avessero ricevuto un cavalierato) e scendendo giù lungo la linea cronologica della saga, in modi e forme come sempre molto variegate, si incontrano degli irriducibili di varia natura. Sono persone non certo cattive, ma “malate” di sindrome dell’abbandono; si rendono conto che la saga sta muovendo dei passi lontano da loro e per questo le fanno una guerra spietata, perché si rendono conto di non essere più i “bambini prediletti”.

Questo processo rivela inesorabilmente lo scorrere del tempo, mette davanti alle persone la realtà della loro età, porta meno entusiasmo al cinema perché si è di dieci o venti anni più vecchi e non si reagisce più come adolescenti e va ad incrinare quelle bolle
cristallizzate nel tempo nelle quali essi si erano rifugiati, sicuri a buon diritto non solo del “maggiorascato” sulla saga, ma anche del fatto che qualcosa che era durato così a lungo sarebbe rimasto immutato in eterno. A questo si aggiunge il grande potere dato dai social network, dove poche persone possono fare confusione per dieci volte il loro numero e far passare una tendenza per un’altra.

Quello che si fa fatica a comprendere in queste situazioni è che Star Wars può sopravvivere anche senza di noi; non serve difenderlo a spada tratta come se fosse una religione, o commiserarlo perché è cambiato, o criticarlo ferocemente perché non è più il sogno infantile che ci accompagnava nella giovinezza. Come tutte le opere corali, ampie, liriche, esso ha una sua statura artistica, una dimensione che manterrà indipendentemente da noi, è possiamo cederlo serenamente ai “guardiani” che ci sostituiranno. Esso non ci abbandonerà mai, ma non ci appartiene più, e forse non c’è mai appartenuto: gli Indiani d’America sostenevano che riceviamo la Terra in prestito dai nostri figli, e non in eredità dai nostri padri, e mi piace pensare che sia un po’ così anche per la nostra saga preferita.

Matteo Di Legge

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